La professione medica è basata sull’intenzione di preservare la vita dei pazienti. La vita con tutte le sue implicazioni, fisiche/biologiche, psicologiche, ma soprattutto la vita che abbia ancora senso di essere vissuta/prolungata. Chi deve decidere se, in presenza di patologie gravi e prognosi infausta, una vita debba comunque essere prolungata si trova di fronte a un problema complesso, costantemente dibattuto negli ultimi anni nel contesto dell’etica medica, anche se non esiste ancora una regolamentazione giuridica in questo ambito. Di certo, le scelte del paziente individuale sono di gran lunga le più importanti dal punto di vista decisionale, ma le scelte dei pazienti e le scelte relative al prolungamento/interruzione della vita in conseguenza di patologie gravi con prognosi infausta devono per forza basarsi sulle informazioni che i medici forniranno agli stessi pazienti relativamente alla patologia in questione. Quindi, si profila un ambito in cui il rapporto medico-paziente debba basarsi su un chiaro ed oggettivo flusso bidirezionale di informazioni, sulle quali entrambe le parti possano prendere delle decisioni consensuali. Tuttavia, esistono numerosi fattori che ostacolano la realizzazione di una legge che regolamenti la faccenda. Tralasciando le implicazioni religiose/politiche, che di fatto rappresentano il maggiore ostacolo ad una fattiva regolamentazione della questione, vale la pena soffermarsi sulle responsabilità specificatamente mediche. La comunicazione continua da parte dei media di una medicina oramai miracolosa, che permetterebbe a tutti di diventare centenari, fa sì che la popolazione sia sempre meno preparata psicologicamente ad accettare la naturale evoluzione della vita verso la morte, escludendo quest’ultima dalle possibilità esistenziali. Tutto ciò costantemente alimentato dalla medicina ufficiale, che si prende cura soltanto del prolungamento della vita con interventi futili, senza tenere conto dell’importanza di considerare la morte come un evento fisiologico al pari della nascita e, pertanto, di prendersi cura anche del periodo “fine-vita”. Questo si traduce in una medicalizzazione della morte, con il conseguente frequente spostamento dell’evento morte dal proprio letto a quello di un ospedale (quando non una barella in pronto soccorso), mentre invece servirebbe (e basterebbe) un’organizzazione che renda il fine-vita il contrario del calvario che spesso al giorno d’oggi ci si trova ad affrontare.
Sono argomenti interessanti per medici e pazienti, bene dibattuti in vari articoli appena pubblicati sul British Medical Journal. Buona lettura!
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